I governi hanno cominciato a discutere di problemi ambientali quarant’anni fa a Stoccolma ma già due anni prima l’Earth Day segnava il debutto della società civile mondiale con sensibilità ecologiche. I cambiamenti necessari sono arrivati proprio dalla società. Individui, piccoli gruppi, comunità, associazioni,imprese innovative hanno inventato produzioni efficaci e consumi compatibili con i modi di funzionare della natura, grazie anche al recupero di tecnologie antiche, ed hanno piantato i semi di un nuovo modo di vivere e di produrre equo e sostenibile che si insiste ancora a definire anti politica, robetta di dilettanti, arcaismo, nimby. Governi e multinazionali non hanno cambiato rotta, anzi insistono su un modello di sviluppo consumista e classista causa prima delle emergenze, non solo ambientali. Tante chiacchiere sullo “sviluppo sostenibile” auspicato dal rapporto Brundtlandt dell’Onu (1987) e scelte che poco hanno a che vedere con l’ecologia e il riequilibrio della biosfera, vedi il mercato dei crediti di carbonio e il sostegno all’energia da monocolture agricole che aggrava le condizioni di vita di milioni di poveri. Sorte simile per la green economy. Nei piani per uscire dalle crisi che lacerano l’Europa non una parola sul mutare del clima, la perdita enorme di biodiversità, l’inquinamento come se non ci fosse alcun rapporto tra le crisi economiche e finanziarie e le crisi ambientali, sia nel loro esplodere che per la loro soluzione. Ignoranza, confusione, speculazione. La Heinrich Boell Stif tung aiuta a chiarire. Con una serie di testi, in particolare “Buen Vivir” di Tho
mas Fatheur, la fondazione tedesca ha introdotto In Germania il ben vivere e i diritti della natura, elaborati in Ecuador e Bolivia, concetti che hanno rotto con il modello occidentale di sviluppo. Cosa intendano per economia verde governi, organismi internazionali (Unep e Ocse) e corporation lo ha analizzato uno studio di Wolfgang Sachs, Thomas Fatheur e Barbara Unmuessing presentato a maggio a Berlino e tradotto ora in inglese (“Criti que of the Green Economy. Toward Social and Environmental Equity”). I Brics, paesi ex poveri oggi “global players”, sono ai primi posti nella classifica mondiale della crescita, ma come ci sono arrivati? Prendiamo il Brasile, il modello più interessante per una parziale redistribuzione sociale. L’ascesa spettacolare brasiliana nasce da attività assai poco verdi, un pesante neo-estrattivismo (Eduardo Gudynas, 2011) con estese monocolture di soia ogm e di canna da zucchero per l’etanolo, grandi dighe e complessi idroelettrici stati rilanciati dai governi Lula e Roussef e battezzati green economy. Le multinazionali della chimica, della farmaceutica, del cibo e dell’energia, da Monsanto a Big Pharma a Chevron a Procter&Gamble, e anche i governi di Germania e Stati Uniti, da parte loro chiamano verdi due inquietanti tendenze che vanno ben oltre la speculazione: dare un valore economico ai servizi resi dagli ecosistemi naturali, finora ignorati e, soprattutto, la bio-economia, vale a dire l’uso di tutte le risorse naturali trasformate dalla biologia sintetica e brevettate. Appropriazione delle basi della vita. Profitto e potere.