«Slow trade», la nuova agricoltura

Ben noto ai lettori del manifesto sin dalla pubblicazione della serie Archeologia dello sviluppo, Wolfgang Sachs, direttore di ricerca al Wuppertal Institute per il clima, l’ambiente e l’energia, con Tilman Santarius ha coordinato il rapporto Slow Trade-Sound Farming per una nuova politica commerciale agricola.

Perché avete scelto l’agricoltura?

Per ragioni politiche, umane e ambientali. L’agricoltura è una delle due grandi arene dove viene giocato il futuro della sostenibilità del nostro vivere: l’energia e la terra. Ed è il crocevia di gravi problemi ambientali: acqua, biodiversità, fertilità della terra, deforestazione. Dal punto di vista sociale dobbiamo avere coscienza che il 70 per cento dei poveri vivono in aree rurali, quindi tutto ciò che accade in agricoltura ha impatto sul loro destino. Infine, l’agricoltura è il fulcro dei negoziati sulla riforma del commercio internazionale. In questo momento è il nodo che non si può sciogliere ed è il punto su cui fallirà il round di Doha dell’Organizzazione mondiale del commercio(Wto). La logica dei negoziati trascura il diritto all’esistenza di intere popolazioni e l’integrità della biosfera.
della biosfera. 

Nel vostro rapporto rovesciate le idee oggi dominanti sul commercio agricolo, sullo sviluppo e sulla lotta alla povertà. Parlate di reti sociali e naturali, e non della sola produzione di reddito. Usate parole che non troviamo nemmeno in altre analisi critiche della globalizzazione: biosfera, natura, rigenerazione dei suoli…

Nelle analisi, anche da parte dell’opposizione, l’enfasi è sui diritti umani dei contadini. Va bene, ma rimane fuori molto spesso la dimensione ambientale. Dalla riunione del Wto sull’agricoltura a Cancun è diventato un luogo comune che la strada migliore per portare avanti una maggiore giustizia sociale sia un accesso più libero per i prodotti agricoli del Sud del mondo verso i mercati del Nord. Questa enfasi secondo noi è sbagliata. E’ vero che imercati del Nord sono strutturati in modo ingiusto, però abolendo tutte le barriere alle esportazioni dal Sud, avremo certo un mercato più equo ma sempre libero mercato, che non può risolvere la povertà, tantomeno i problemi dell’ambiente. 

La chiave dell’alternativa sono per voi i piccoli produttori, le piccole aziende familiari. E’una proposta in totale controtendenza con i processi di concentrazione in corso.

Se vogliamo combattere la povertà e il fatto che sempre più persone perdono la possibilità di guadagnare la propria sussistenza, dobbiamo preoccuparci del destino dei piccoli produttori. Non è un sentimento romantico ma un atteggiamento pragmatico. Oggi una grande maggioranza sempre più grande di persone lavora nel settore. Piccoli produttori o piccoli commercianti che fanno parte di un’economia rurale fondamentale per la vita di milioni di poveri

Voi inserite questa chiave entro la valorizzazione del commercio locale e nazionale, che indicate come prioritario. Assegnate invece al commercio continentale e globale, anche qui in controtendenza, un ruolo complementare secondario.

Nel discorso dominante l’orientamento verso l’esportazione viene visto come lo strumento dello sviluppo. Noi invece, come tanti altri, diciamo che per il piccolo produttore il punto centrale non è l’accesso ai mercati lontani ma l’accesso al mercato vicino. Bisogna sviluppare quindi mercati locali ed economie nazionali, e cercare di integrare il settore rurale in esse. Solo come cosa in più, in modo complementare, potrebbe essere interessante svolgere certe attività sul mercato internazionale. Ma non dovrebbe quasi mai essere il fattore risolutivo. 

Affermate anche che gli ostacoli al libero commercio non sono gli Stati ma le grandi imprese transnazionali, e rivalutate il ruolo dello stato e delle comunità locali. Multinazionali cattive, comunità buone…

Valutiamo soltanto un altro errore del Wto, quando sostiene che lo Stato è responsabile delle distorsioni del mercato. Può essere anche vero in alcuni casi ma se si guardano bene le cose vediamo che sono le grandi imprese ad avere il potere di dettare prezzi e standard di produzione. Ed è questo il motivo per cui tanti piccoli produttori non hanno la possibilità di entrare nei mercati. La liberalizzazione che elimina le frontiere dà più potere alle grandi imprese, che hanno oggi uno spazio molto più grande per le loro manovre globali. Ogni riforma del commercio agricolo dovrebbe invece rafforzare la posizione dei soggetti più piccoli nella catena transnazionale di produzione. 

Non escludete però un commercio diretto all’esportazione per i piccoli produttori.

Noi non siamo contro l’esportazione di prodotti agricoli. Anzi può essere positiva anche per small farmers. E’ già oggi così. Lo vediamo per il caffè o il cacao. Spesso sono attività di piccoli produttori che formano associazioni e affrontano il mercato. Noi cerchiamo di identificare criteri per una esportazione sostenibile. Che non marginalizzino i piccoli e non sacrifichino l’acqua, il suolo, le foreste per creare merci d’esportazione.

Mi sembra che a voi stia anche a cuore la rigenerazione della democrazia.

La democrazia entra direttamente quando si parla dei diritti delle nazioni e delle società perché la filosofia del libero commercio punta sulla loro sparizione. Creano ostacoli al flusso delle merci e dei servizi. In questo senso il mercato libero è un attacco alla democrazia perché democrazia vuol dire esprimere le preferenze di una collettività,mettere mano alle proprie cose e cercare di gestirle. Per dare più peso alla società e alla politica bisogna dare di nuovo più spazio alle nazioni e ai governi nazionali. E quindi bisogna arginare l’intenzione del Wto di contenerne l’autorità.

Stati Uniti, Europa, Giappone: li chiamate «la triade». E aggiungete Brasile, Argentina, Cina. Paesi dominanti che dettano le regole, a proprio vantaggio. L’Europa è dunque tra i cattivi?

Sì, tutto sommato l’Europa è tra i cattivi. Per esempio, mentre le politiche ambientali sono abbastanza interessanti, per il commercio internazionale l’Europa è assai vicina agli Stati Uniti. La sua strategia generale è di aprire imercati di altri paesi, in particolare quelli del Sud, per l’industria e per i servizi. Purtroppo per gli Europei il Sud se n’è accorto, e dice: «Se voi volete che noi apriamo i nostri mercati, dovete anche voi aprire i vostri ai nostri prodotti agricoli». Ma è problematico perché una vera apertura al Sud significherebbe la morte di gran parte dell’agricoltura europea. Così l’Europa ha capito che la globalizzazione vera non è possibile. E cerca di portare avanti una politica di doppio standard. Dovrebbe invece dire onestamente che se la liberazione in agricoltura non va bene per l’Europa, quella di industra e servizi può non andare bene per il Sud del mondo. E partire da questa ammissione per rilanciare i propri interessi. Finora non è stato così. L’Europa cerca di avere una cosa senza concedere l’altra. 
 
L’Unione europea ha deciso la percentuale obbligatoria di biocarburante per auto. Ma l’ambiente può essere squilibrato profondamente dalle monocolture per il bioetanolo e il biodisel, a fronte di vantaggi poco certi per il clima della Terra: distruzione di foreste tropicali per le palme da olio, aumento prezzi mais o soia, competizione tra cibo e carburante…

Non sarei così pessimista. La riflessione è aumentata e anche la Ue ora sta cercando di trovare e applicare criteri. Credo decisivo non impegnarsi in un commercio intercontinentale. Il biocarburante deve venire dall’Europa e deve essere ricavato in primo luogo dai rifiuti agricoli e non da piantagioni.

Perché proprio questo titolo: Slow Trade Sound Farming?

E’ stato pensato quando sono stato a Torino, per Terra Madre, l’iniziativa con i contadini piccoli produttori di tutto il mondo organizzata da Slow Food. Con questo titolo ci mettiamo nello spirito di Slow Food che non è solo gastronomia. E’ anche preservare l’agricoltura delle razze autoctone, della biodiveristà alimentare, del tessuto sociale entro cui si produce. E poi Slow Trade perchè un commercio che cerca di promuovere il diritto all’esistenza e la protezione ambientale sarà sempre un commercio più lento. 

Il manifesto 29/04/2007

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