Tommaso Di Francesco

Il sorriso contraddetto

Una vita che si conclude lascia, luminosa e sensibile, la consegna di una scia. Non è solo quello che è stato detto e realizzato. Più peso hanno nel momento della memoria tutti i frammenti delle parole non pronunciate e tutta la vita non realizzata. Giuseppina, che mi ostino a pensare sempre viva e vicina, consegna questo lascito. Inesprimibile.
Ho conosciuto Giuseppina Ciuffreda da una vita, fin dalla Federazione romana del Pci negli anni Sessanta, prima della radiazione del gruppo del manifesto, e poi da subito fin nei primi giorni della storia del gruppo, della rivista e del giornale. Non portava nel confronto, nei dialoghi e perfino negli scontri, la distanza della politica ma la passione della vita, la difficoltà dell’esistenza.

Offrivi pulita e accesa
la rabbia degli offesi.

Noi tiravamo tardi nelle sedi del manifesto, lei alle riunioni portava il figlio piccolo, Marco, testimone di diatribe lunghissime sui destini della nuova sinistra rivoluzionaria. Il bambino infastidiva, pensavamo, col suo pianto noi leader di noi stessi, che dibattevamo. Quel pianto invece ci riconsegnava alla realtà, come il tentativo di Giuseppina di giustificarlo, reprimerlo, coccolarlo.

Nessuno ha memoria d’un lamento bambino, quando
solo tra grandi strillava l’insopportabile ordine
del giorno tenuto a bada dai convenuti in assemblea.
E una sola, una sola risposta si levava sul diritto
alla presenza di quel vagito a parole balbettate.

Scoprivamo così che stavamo nel vero grazie anche a lei che aveva il coraggio della donna, sola e madre. Non era facile, anche a sinistra, essere ascoltati. Se chi prendeva la parola lo faceva testimoniando la consapevolezza del vissuto.
Il personale era politico ma era una vergogna riconoscerlo. Più tardi avremmo dovuto fare i conti con il conflitto di genere e con il protagonismo delle donne.
Da Giuseppina ho imparato questo: usare un sorriso deciso, il primo gesto
a portata di mano, appena contraddetto dalla voglia di assaltare. Difficilmente mascherabile. Un sorriso vitale, umano, alla conquista degli altri. Perché lei pretendeva, con rabbia, il positivo.
Fu lei nella redazione esteri ad aprire il dibattito “contro le notizie cattive” per “rivelare quelle buone”. Che rincorreva nel mondo, inviata, a seguire le svolte dell’89, in Ungheria, in Bulgaria e in Polonia. Nella sconfitta del socialismo reale, insisteva, c’era il limite dell’idea di progresso, inteso ancora dalla sinistra come allargamento del produttivismo. Proprio quando lo sviluppo produttivo cominciava a mostrarsi come distruzione dell’ambiente e delle risorse anche umane. Giuseppina affrontò quasi per prima il discorso sull’ecologia, riconvertendolo in un’arma di riscatto dei Paesi poveri della terra. In un lavoro che è durato decenni.
Sconfitta dalla morte troppo crudele del figlio, entrava in una nuova zona di silenzio produttivo.

Dunque si muore offesi come Mamma Roma
legati perché separati dalle voci intorno
chiamando un nome, forse due, in gabbia
animale che osa traversare sotto i fari…

Indomita fino all’ultimo nel tessere rapporti sul nuovo. Sul presente possibile del mondo, piuttosto che sul passato o sul futuro solo promesso. Sconfitta da un male inesorabile aveva però ripreso nel 2013 la sua rubrica sulle pagine di questo strumento della politica che ci ostiniamo a chiamare ancora il manifesto “quotidiano comunista”, convinta che dovesse vivere oltre ogni conflitto intestino.
Grazie Giuseppina che hai lo stesso nome che era di mia madre.