Il canto degli U’wa contro il petrolio

In Colombia, nella foresta sulle Ande, al confine con il Venezuela, è in corso una lotta indigena esemplare, protagonisti gli U’wa. L’antagonista è la multinazionale del petrolio statunitense Occidental Oil and Gas Corporation, più nota come Oxy. La multinazionale vuole estrarre petrolio dalle loro terre ancestrali, dove sono sepolti nonni e antenati. Finora, per la resistenza opposta dagli U’wa, che hanno avuto morti, scomparsi e arrestati, la Oxy è riuscita solo a piantare un pozzo per le prospezioni.
Il territorio è dunque ancora quasi intatto e gli indigeni non si sono fatti “desplazare”, grazie anche all’appoggio dei contadini, come è invece accaduto alle etnie Yariguies, Bari, Kofan, Salinas, Nukak e Huabibas, devastate dalle attività estrattive delle multinazionali Tropical Oil Co., Mobil-Colpet, Texas Petroleum Co. e Oxy. Dicono gli U’wa: “Prima l’oscuro cammino di saccheggi, genocidi ed ingiustizia contro il nostro popolo era perpetrato nel nome di Dio e di sua maestà, oggi è illuminato con il petrolio e fatto in nome del progresso e di quella che è la più grande delle maestà per la maggior parte dei non indigeni: il denaro”.
La cultura degli U’wa è legata indissolubilmente al territorio. Essi ritengono che le loro terre, una volta estese al Venezuela, siano il cuore del mondo, un punto nevralgico per la vita del pianeta, e che il petrolio sia il sangue della Madre Terra. Il petrolio nella loro concezione non è una semplice risorsa ma, come l’oro e le pietre preziose, ha altre funzioni, vitali per l’organismo vivente Terra: “Essi sono vivi, stanno lavorando…”.
Gli U’wa pensano che la Terra oggi stia per dissanguarsi per l’estrazione continua di petrolio ma “non permetteranno che la Madre venga uccisa”, anche se per questo dovranno morire tutti, afferma Daris Cristancho, coordinatrice della lotta. Daris ha cinque figli, ha studiato ed è stata anche istruita nelle scienze spirituali indigene. E’in Italia con il capo Berito Cobaria, accompagnati dai Verdi, per far conoscere la loro vicenda.
Per onorare la missione avuta da Sira (Dio), proteggere il territorio in cui vivono, gli U’wa rifiutano l’elettricità, il telefono e il televisore, non usano denaro. Coltivano piccoli pezzi di terra, hanno qualche animale. Non vogliono strade perché con la strada arriva il progresso e la devastazione: “L’uomo bianco cavalca il progresso verso la sua distruzione…”
Il canto ha un ruolo fondamentale nella loro vita e nella loro cosmogonia. Essi ritengono che l’equilibrio del pianeta sia mantenuto grazie al loro canto rituale, che narra la creazione del mondo e percorre il territorio ancestrale, e il globo intero: “Se non cantassimo il mondo morirebbe.”
Gli U’wa sono di lingua Chibha, non hanno scrittura e hanno tramandato i loro saperi oralmente attraverso il canto, la danza e il sogno. Ma per difendere la terra hanno imparato a leggere e a scrivere, a parlare spagnolo e ad usare Internet. Si sono divisi i compiti: le autorità spirituali, i werjayas, vivono nel “mondo di sopra”, in cima alle Ande, e non scendono mai. Daris dice che grazie alla purezza della loro vita frutto di dure e annose pratiche spirituali, comunicano con gli alberi, con gli animali e con entità spirituali superiori, e sono in grado di vedere avvenimenti lontani nello spazio. Il popolo U’wa, 6.000 persone, vive in capanne isolate nella foresta a diverse altezze inaccessibili ai bianchi, mentre nel “mondo di sotto” un piccolo gruppo con funzioni politiche e organizzative, il cabildo major, ha uffici, usa i computer e la radio.
Per difendere la loro causa alcuni di loro viaggiano, altri si sono laureati – Ebaristo Tegria è il primo avvocato U’wa. Il gruppo lavora con le organizzazioni contadine e ambientaliste colombiane, con gli ecologisti statunitensi e con i Verdi italiani, che hanno sposato la loro causa e, dallo scorso anno, sono presenti con continuità nel territorio indigeno.

Il manifesto 01/04/2001

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