2024 La bellezza e la speranza

Per Giuseppina Ciuffreda la bellezza è un bisogno umano e la sua perdita “fa male all’anima”.
Non solo. La connessione fra bellezza e natura è imprescindibile perché “il bello vive nella natura non degradata”.

Con grande acume le sue analisi privilegiano un approccio dove l’utile è unito al bello, come nel movimento Arts and Crafts di cui ha scritto spesso. Ma esiste un approccio di genere in questa dicotomia? Esiste un diverso modo di guardare alla funzionalità e all’estetica da parte delle donne? Se lo sono chieste le architette che hanno partecipato ad una iniziativa specifica organizzata dalle professioniste di AreA M- Associazione Multidisciplinare Arte Architettura. E la conclusione è sì, esiste una diversa percezione sia dell’estetica che dell’utile da parte delle donne nel valutare i rischi, in primis quelli ambientali, ma anche nel progettare le città, gli spazi e, in definitiva, tutto ciò che serve a vivere. Una riflessione che unisce ecologia e femminismo e che mostra come ci sia ancora bisogno di idee e sguardi nuovi per dare una speranza di futuro in un mondo che sembra impazzire. Le guerre, in Ucraina e Israele-Palestina fra tutte le altre, che sono sempre atroci, la crisi climatica sempre più grave, l’avvento tumultuoso di razzismi e fascismi risorgenti. Sembrerebbe un mondo che ha smarrito il futuro e la speranza. Ma non è così. Bisogna guardare in avanti con occhi nuovi, perseverare, non arrendersi, trovare e alimentare briciole di positività. Riflettere insieme può servire come tenterà di fare l’iniziativa dei “Colloqui di Dobbiaco” del prossimo settembre, che dal 1985 cerca di affrontare le trasformazioni del mondo con sguardi particolari. “La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha un senso – indipendentemente da come andrà a finire”. La citazione di Vaclav Havel chiude il manifesto di invito dei Colloqui del 2024. Ed è un invito che vale anche per le architette che caparbiamente hanno deciso di non darsi per vinte e di spiegare come e perchè è possibile rileggere la globalizzazione con gli occhi delle donne e riprogettare le città a partire dai bisogni delle cittadine/i e non da quelli dell’industria dell’auto e di un modello di capitalismo commerciale che sta mangiando il pianeta, per esempio. 

Come si fa? Innanzitutto promuovendo la presenza delle donne nei ruoli apicali dei luoghi che contano: basta con il gender gap nelle pubbliche amministrazioni dove solo il 33,8% ricopre cariche dirigenziali. Poi basta pure con la neutralità delle scelte. Le donne, professioniste e non, hanno valori diversi che vanno difesi e affermati specialmente quando le scelte determinano il futuro del pianeta e della vita di ognuno. Bisogna alimentare queste briciole che possiamo definire “ecofemminismo delle differenze” , renderle visibili e condivisibili. Giuseppina ne avrebbe fatto una battaglia comune. E noi con lei.

la redazione